È notizia recentissima che il Comitato intergovernativo per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO (“Comitato”), riunitosi a New Delhi, abbia riconosciuto all’unanimità la cucina italiana patrimonio culturale immateriale dell’umanità[1]. La candidatura italiana è stata avanzata nel 2023 dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste con la collaborazione di tre realtà gastronomiche, ossia la “Accademia Italiana della Cucina”, la fondazione “Casa Artusi” e la rivista “La Cucina Italiana”. Si tratta di un importante riconoscimento che si aggiunge ai numerosi altri già ottenuti dal nostro paese. Ad esempio, rientrano nel Patrimonio Culturale Immateriale italiano la dieta mediterranea, l’arte dei pizzaiuoli napoletani, l’opera dei pupi, il canto lirico, la cerca e la cavatura del tartufo, la falconeria, l’arte del muretto a secco, la coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria.
Il Comitato, nel concedere tutela, ha dichiarato che la cucina italiana è una “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, “un modo per prendersi cura di se stessi e degli altri, esprimere amore e riscoprire le proprie radici culturali, offrendo alle comunità uno sbocco per condividere la loro storia e descrivere il mondo che li circonda”. Questo riconoscimento non tutela un determinato piatto, ingrediente o ricetta, ma un modello culturale condiviso, composto da conoscenze, rituali, convivialità, esperienze e tecniche tramandate di generazione in generazione. Sono così saliti a venti gli elementi italiani iscritti nella Lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale[2].
Il riconoscimento dell’UNESCO rafforza la posizione italiana nel mondo con riferimento al settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese già eccelle[3]. È ragionevole prevedere riflessi anche sulle Denominazioni di Origine Protetta (“DOP”), sulle Specialità Tradizionali Garantite (“STG”) e sulle Indicazioni Geografiche Protette (“IGP”)[4] per prodotti agroalimentari, nonché sull’origine Made in Italy nel senso più lato. Tale riconoscimento potrebbe infatti funzionare come amplificatore del valore e del significato di queste, le quali già indicano al consumatore che il prodotto è stato realizzato seguendo un rigoroso disciplinare e che tra il prodotto e il territorio esiste un significativo legame. Nel caso delle DOP e delle STG in particolare, i fattori umani e le pratiche tradizionali svolgono una funzione importante. Come è stato affermato in dottrina: “le indicazioni geografiche sono segni distintivi particolarmente sensibili alle esigenze dello sviluppo rurale e socio-economico, e di promozione della c.d. traditional knowledge”[5].
Infine, sia l’export che il turismo dovrebbero beneficiare degli effetti positivi della decisione del Comitato rendendo ancor più attraente, soprattutto agli occhi degli stranieri, la scoperta di nuovi percorsi culinari e tradizioni culturali.
Le molteplici ricadute positive dei riconoscimenti UNESCO sono state analizzate in uno studio interdisciplinare avviato nel 2023 dalla Cattedra UNESCO dell’Università Unitelma Sapienza di Roma. Nello studio si evidenzia come i riconoscimenti, sia per siti cultuali e naturalistici che per elementi immateriali, abbiano esercitato un impatto economico misurabile nel settore turistico, in quello imprenditoriale e per la forza lavoro complessiva[6]. Ad esempio, nel 2014 la pratica agricola della coltivazione della vite ad alberello di Pantelleria è stata dichiarata patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO. A partire dall’anno seguente, la presenza di visitatori sull’isola è aumentata costantemente, con incrementi maggiori in corrispondenza di campagne promozionali che legavano tale sito al riconoscimento UNESCO. In generale, inoltre, a Pantelleria successivamente al 2014 sono aumentati gli investimenti in agriturismi.
La crescente attenzione per il “patrimonio culturale immateriale”
La nozione di “patrimonio culturale immateriale” ha assunto un rilievo giuridico con la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”[7] (“Convenzione”), adottata dalla Conferenza Generale dell’UNESCO il 17 ottobre 2003. La Convenzione, nel fornire una definizione di “patrimonio culturale immateriale” ha inteso assicurarne il rispetto e promuoverne l’importanza accanto ad altre forme di patrimonio culturale “tangibile” costituite ad esempio da opere architettoniche o pittoriche.
Si legge nella Convenzione: “per patrimonio culturale immateriale s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”.
Proprio in seno alla Convenzione è stata istituita, tra le altre, la Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale (“Lista”) in cui sono di volta in volta inseriti i “beni” che ne fanno parte. L’iscrizione nella Lista contribuisce a garantire visibilità al bene inserito e a rendere noto a un pubblico virtualmente illimitato il significato di patrimonio culturale immateriale.
La tutela dei beni immateriali come patrimonio di conoscenze è stata di recente oggetto di attenzione anche con la Legge 7 ottobre 2024 n. 152, che individua nelle manifestazioni di rievocazione storica un altro elemento del patrimonio culturale immateriale. Le manifestazioni storiche sono quelle “manifestazioni finalizzate a salvaguardare e valorizzare la memoria storica di un territorio, comprensiva dei saperi, delle pratiche e delle prassi del periodo storico di riferimento (…)”. Nella stessa Legge è inoltre prevista una delega al Governo per l’adozione di uno o più decreti legislativi per disciplinare in maniera organica e semplificata il patrimonio culturale immateriale (si menziona l’istituzione di buone pratiche di salvaguardia e la promozione di attività formative e di sensibilizzazione presso il pubblico).
In una prospettiva analoga si è posta anche l’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale (“OMPI”), la quale il 24 maggio 2024 ha adottato il primo trattato avente ad oggetto le interazioni tra proprietà intellettuale, risorse genetiche e conoscenze tradizionali (“WIPO Treaty on Intellectual Property, Genetic Resources and Associated Traditional Knowledge”) contenente anche disposizioni specifiche a favore delle popolazioni indigene e delle comunità locali, valorizzando la tutela delle conoscenze tradizionali qualora queste siano utilizzate in un’invenzione per la quale si chiede la protezione brevettuale. Il Trattato[8] prevede infatti un nuovo requisito di divulgazione per le domande di brevetto che riguardino risorse genetiche e/o conoscenze tradizionali. L’art. 3 par. 2 dispone che: “Qualora l’invenzione rivendicata in una domanda di brevetto si basi su conoscenze tradizionali associate alle risorse genetiche, ciascuna Parte Contraente obbliga i richiedenti a divulgare: (a) [i nomi de] le popolazioni indigene o la comunità locale, a seconda dei casi, che hanno fornito le conoscenze tradizionali associate alle risorse genetiche, oppure (b) nei casi in cui le informazioni di cui all’articolo 3.2(a) non siano note al richiedente, o laddove l’articolo 3.2(a) non sia applicabile, la fonte delle conoscenze tradizionali associate alle risorse genetiche”[9].
La tutela delle ricette gastronomiche sotto il profilo IP
Benché, come accennato, la tutela giuridica delle ricette gastronomiche e degli ingredienti caratteristici di un determinato Paese non rientri nelle attribuzioni dell’UNESCO, il riconoscimento conferito alla cucina italiana costituisce un’opportunità per rivisitare la questione. È, infatti, verosimile che la (ancora maggior) fama della cucina italiana, che il riconoscimento UNESCO porterà con sé, potrebbe agire da “stimolo” per gli operatori sleali non nazionali a vantare falsamente l’appartenenza dei loro prodotti al patrimonio gastronomico del Bel Paese.
Come è noto, una ricetta consiste in un elenco di ingredienti e dosaggi da utilizzare per preparare un certo piatto o una certa bevanda, completato da istruzioni che descrivono il procedimento da attuare.
Ma le ricette gastronomiche possono essere oggetto di tutela con uno dei titoli di privativa messi a disposizione dalla proprietà industriale e intellettuale?
La loro tutelabilità per mezzo di un brevetto sembra di ardua plausibilità, perché quest’ultimo mira a risolvere un problema tecnico e richiede la sussistenza di determinati requisiti ai sensi dell’art. 45 del Codice della Proprietà Industriale (novità, altezza inventiva, industrialità e liceità) che, già a livello teorico, mal si conciliano con la ricetta gastronomica, per sua natura estemporanea ed instabile, soprattutto sotto i profili dell’industrialità e della certezza dei confini del monopolio. Tuttavia, non si può escludere a priori che determinati elementi possano essere protetti. Ad esempio, è stata oggetto di tutela la proteina “eme” dello “Impossible Burger”[10] in grado di conferire al burger vegetale il sapore, l’odore e l’aspetto tipico della carne al sangue.
Una diversa scelta, soprattutto per le aziende, potrebbe essere quella di mantenere riservate le informazioni relative agli ingredienti, alla loro combinazione, ai tempi di cottura, raffreddamento o abbattimento, alle modalità e all’ordine con i quali questi sono miscelati nonché ai dosaggi previsti nella ricetta. Un’informazione aziendale può essere protetta come segreto ai sensi dell’art. 98 del Codice della Proprietà Industriale se soddisfa tre requisiti: (i) essere segreta; (ii) essere dotata di valore economico in quanto segreta; (iii) essere tutelata tramite l’adozione di misure ragionevoli per mantenere la segretezza. Vi sono numerosi casi di aziende sulle cui ricette segrete si è fondato uno straordinario successo, basti pensare a Coca Cola e alla sua bibita analcolica gassata o a KFC e al pollo del Colonnello Sanders[11]. Tuttavia, il concreto ricorrere dei tre requisiti al di fuori di un’organizzazione di impresa sofisticata e strutturata, in specie, con riferimento a piatti tradizionali diffusi sul territorio, che tendono ad essere proposti da un vasto numero di microimprese, pare difficilmente proponibile.
Un altro approccio è quello della tutela di un determinato piatto o bevanda con uno dei titoli specifici che proteggono le origini e le denominazioni. Anche se è vero che, per utilizzare lecitamente l’origine o la denominazione, il produttore si obbliga a conformarsi alle prescrizioni di un disciplinare e deve sottostare a verifiche, è chiaro che qui il bene protetto è la veridicità del claim che evidenzia il legame stretto tra prodotto e territorio, non la materiale modalità di produzione del prodotto o dell’ingrediente.
Esiste poi un’ulteriore tutela che ricade invece sulla forma espressiva del testo[12] della ricetta gastronomica. Infatti, le modalità con cui il procedimento viene “narrato”, se originali, possono essere tutelate con la Legge sul Diritto d’Autore[13]. In tale senso, il Tribunale di Milano ha statuito che: “Le ricette gastronomiche possono essere oggetto di tutela autorale avuto riguardo, in particolare, alla forma espressiva delle stesse, laddove frutto di una ricerca personale, originale e creativa del loro autore, il quale può invocare la violazione dell’art. 12, L. 22 aprile 1941, n. 633, laddove terzi utilizzino abusivamente le sue ricette riproducendole in un libro introdotto in commercio”[14]. Si trattava di un caso avente ad oggetto la creazione e sperimentazione di ricette artigianali per salumi pubblicate da un appassionato sul proprio blog e poi inserite, senza il consenso dell’autore, in un libro di ricette di una casa editrice. Nel caso di specie, secondo il Tribunale, era evidente un apporto personale dell’autore che non si limitava alla schematica esposizione di elementi noti.
Peraltro, in una prospettiva più ampia, non è impensabile che in futuro vengano introdotti nuovi strumenti atti a stabilizzare la determinatezza, e perciò, la certezza di una ricetta, anche sotto il profilo giuridico. Si pensi, in altro campo, ai nuovi marchi di suono, olfattivi, di posizione, ecc… un tempo inconcepibili per l’impossibilità di tradurli in una rappresentazione grafica o testuale, ed oggi (pur se a valle di interventi normativi) pacificamente riconosciuti. La realtà è sempre almeno un passo avanti rispetto alla norma che intende disciplinarla. La palla passa, dunque, ai legislatori europei, internazionali e nazionali.

